La nostra memoria collettiva è come una mappa, densa di luoghi un tempo abitati e vissuti, di racconti esemplari, gioie e drammi, mestieri scomparsi, epopee domestiche e miti familiari, che ci aiuta a orientarci come una stella traslucida e ci salva in qualche modo dal caos del presente. È in quei luoghi e in quei racconti che ritroviamo noi stessi e le nostre origini, ciò che siamo, ciò che eravamo. Ecco perché diventa essenziale preservarne la memoria col racconto
Luzzano, il mio paese, è incastonato tra le colline, una valle dentro una valle, con le case attaccate alla roccia come quelle di un presepe perché un tempo, dove oggi corre una strada, scorreva un fiume. La nostra parlata cantilenata fa sembrare che prendiamo la vita più come un gioco che come una cosa seria; per me, è solo che così la sentiamo più leggera. Il fiume che dalla collina scende a valle è ormai quasi solo un rivolo, eppure le sue acque primaverili risuonano ancora delle voci di donne che lavavano i panni gioiose e si rinfrescavano dalla calura, mentre i bambini per gioco provavano a pescare qualche pesciolino col canestro per poterlo mangiare la sera con tutta la famiglia (numerosa, com’era d’uso).
Le bocche delle fontane pubbliche quasi mai riposavano, sempre indaffarate a riempire i secchi assetati delle donne, perché l’acqua corrente in casa era ancora un miraggio lussuoso del futuro, così come la corrente elettrica. Le piazze nei giorni santi brulicavano delle chiacchiere e dei pettegolezzi domenicali di uomini e donne, a gruppi separati e a distanza di pudore, con gli sguardi intrappolati che talvolta riuscivano a scappare e a trovare gli occhi della persona desiderata. I sentieri di collina – allora ben più calpestati delle strade in pianura, ancora in terra battuta perché di rado vedevano arrancare qualche automobile di seconda mano – si attorcigliavano tra gli alberi come le biforcazioni di un labirinto, e ci portavano sulle alture che ancora oggi vibrano dei ‘conti degli uomini che tagliavano la legna, mietevano il grano, potavano gli ulivi e le viti, accompagnati dal lontano scampanellio ritmato delle vacche e dai fischi dei pastori, che a sera annunciavano il rientro.
Talvolta il troppo lavoro finiva tardi e la notte li sorprendeva, costringendoli ad accamparsi all’addiaccio in pagliai di roccia nuda e fredda, comunque confortevoli rispetto all’aperta collina, calpestata dagli ultimi lupi che ancora non avevano smarrito sè stessi nel trambusto del nuovo mondo.
C’erano posti in collina abitati in estate da intere famiglie, che lavoravano insieme per produrre una delle grandi fonti di guadagno artigianale del paese, i coppi, ovvero le tegole in terracotta per rivestire i tetti. Nel video “CURTI” di Luigi Massaro, la signora Rosa ci mostra proprio quei luoghi, e ci racconta i vari passaggi di questa produzione che tanto ha contribuito alla crescita del paese.
Si procedeva estraendo la creta, lavorandola e inserendola in delle forme di legno che davano la forma desiderata all’oggetto da produrre (tegole, mattoni…). Successivamente gli oggetti prodotti si facevano essiccare e, una volta accumulati, si portavano in una fornace per la cottura. Oggi quella produzione naturalmente non esiste più. Restano solo cocci rotti qui e là, i racconti degli antichi e la memoria di chi ha ascoltato i loro racconti, sognando di giorni in cui i pesci saltavano nel fiume e notti in cui la luna illuminava il cammino ai lupi.
Diana Cusani, associazione “Textures”, Airola
Questo articolo mi dà la conferma che ” la memoria , il ricordo ” siano il sale della vita … l’eternità è questa , per me .
Mi sono emozionata a leggere questo articolo. Mi ha fatto ritornare indietro nel tempo, quando mi da bambini i nostri genitori e zii ci raccontavano questo davanti al camino o sul muretto ” achillatto da zizia”